Vietato grattarsi lo scroto | Tentata violenza sessuale

Vietato grattarsi lo scroto! ovvero, sfoderando quella piuma di struzzo di un politicamente corretto, vietato toccarsi l’organo sessuale/le parti intime. Un fastidio ordinariamente comune e diffuso che, nel caso in cui non si scopra essere indicatore di infezione in corso, è pure conseguenza di uno stato emotivo, in particolare lo stress. Inoltre, essendo una pelle dello scroto notoriamente fina e delicata è soggetta a infiammazioni sia infettive che non; ciò dovuto, in ispecie e tra le altre, allo sfregamento con la pelle o con tessuti sintetici. Un fastidio insomma, un senso di molestia per cosa che mal si sopporta, una sofferenza, non certo una delizia. 


In aggiunta si impongono quegli studi di illustri sessuologi a ricomporre nell’imputato gesto una necessità fisiologica, al di là di una cattiva costumanza, il verdetto bigottamente instillato, le cui motivazioni sono a sgranar l’ingegno e a varcare soglie. In qualità di rinforzo difensivo esso è a manifestare la tendenza inconscia dell’uomo a proteggere la sua parte più importante (indicatore di fertilità), sostanzialmente delicata e dolorosa se urtata violentemente. Meno invasivo di un farmaco tranquillante, esso è a sortire una specie di effetto calmante: il contatto con le parti intime stimola la produzione di ossitocina, un ormone che favorisce il rilassamento. Nella sua veste dominante, invece, lo stesso gesto è a manifestare il desiderio dell’uomo di imporsi come maschio, e via dicendo. 


E sempre lui, quel gesto sì imputato, a voltar pagina e a scivolare fra le pieghe di una terra onirica tradizionalmente popolare, si fa scongiuro. Lo iettatore dall’ascendente negativo, amico stretto dello schiattamorto, è colui che porta sfortuna, è uccello del malaugurio. Personaggio caro anche a Pirandello, è evitato da tutti e in sua presenza, vuole la credenza, è consuetudine mai delitto cedere alla bontà salvifica di un oggetto oppure gesto complici. In mancanza dei classici e intramontabili, il ferro di cavallo, il corno o gobbo rosso di plastica, il sale grosso, la catenina e il suo ciondolo a significare il numero 13, non resta che toccarsi lì, ahimè. 


Voglia ora pure che l’esimia corte di italica eccellenza ivi giunta, nelle sue logiche attività, sia concorsa a sentenza nei confronti dell’imputato gesto: è reato, è illecito penale, è 

“atto contrario al decoro e alla decenza pubblica, anche se il fine del gesto è apotropaico”.

A fondamento delle loro ragioni, buone o cattive, illuminanti o decadenti, sono a statuire che

“il palpeggiamento dei genitali alla presenza di terze persone è manifestazione di mancanza di costumanza e di educazione in quel complesso concetto di regole comportamentali etico-sociali».

Costumanza, educazione, etica e morale, raccogliamo con riverenza. 

A ogni corte i suoi dettami a sceverare il buono, il giusto, il lecito dall’ingiusto, dall’illecito, dallo sconveniente, dal cattivo.

A ogni corte i suoi vizi


Ma che dire di quel disgraziato che per una incolpevole incomprensione si risveglia in galera, in isolamento: è prova chiara e inequivocabile, il gesto qui imputato fra le mura di casa propria, di una disposizione a violentare pure la compagna. È prova chiara e inequivocabile, è certezza al di là di una perplessità, una indagine, una interrogazione a sondare il pregiudizio. Quella stessa che in un senso soggettivo è a corrispondere 

alla conoscenza sicura di un fatto

alla convinzione 

alla ferma persuasione

al possesso fuor di dubbio.

Uno stato di grazia in cui si gongola salda l’esimia corte, mentre a lui resta l’inferno, un campo aperto in cui scontare la pena di una indisposizione assai diffusa a concedersi lo spazio e la libertà di cadere nei molti errori di mente e sensi ad alterare la realtà. Un gesto sì innocente, una necessità fisiologica, un fastidio, una sofferenza, strappato al suo contesto, spogliato delle sue intime sfumature, violentato nella sua nuda essenza, che per sciatteria investigativa si fa prova di reato. Di nuovo, raccogliamo con riverenza, a ogni corte i suoi dettami.

A ogni corte i suoi vizi. 


Metilde S